Ebbi la lucidità per pensare che ero finito prima ancora di rendermi conto che i miei piedi stavano affondando lentamente ma inesorabilmente dentro al fango.
Cosa ci facevo lì e perché? Non avevo il tempo di rispondere a queste domande che bruciavano in un istante nella mia mente, come frammenti di carta incendiati in un attimo da una fiamma vivida. Dovevo salvarmi, uscire dal quella fanghiglia putrida prima che mi inghiottisse del tutto.
Ma più provavo a sollevare i piedi, più sentivo che la melma mi risucchiava, come una creatura vivente, una specie di mostro che desiderava farmi suo, farmi diventare un tutt’uno con lui, trasformando me stesso in fango.
Mi guardavo attorno e non vedevo che una foschia densa che mi penetrava violenta nei polmoni, rendendomi difficile il respiro.
A sconvolgermi più di tutto, però, era il tanfo che mi penetrava nel naso e nella gola, spalancata per guadagnare ossigeno nello sforzo di sottrarmi a quella morsa implacabile. Un odore nauseabondo, come se quel fango fosse il frutto di una decomposizione, di qualcosa che non aveva più vita da tempo. Lo sentivo persino sulla pelle, insinuarsi in ogni poro, quasi a voler iniettare quella decomposizione fetida fin dentro di me.
Nonostante ogni mio sforzo, il fango aveva ormai quasi raggiunto le ginocchia, immobilizzandomi sempre di più e rendendo patetici i miei tentativi di liberarmi.
Tuttavia non volevo mollare e, urlando, provai con uno sforzo di cui non mi credevo nemmeno capace, a sollevare il piede destro. Sentii il fango cedere per qualche istante e la speranza di una salvezza mi si accese dentro. Fu solo un attimo, come se quella melma volesse farsi beffe di me, donandomi una speranza che non dura, per trasformarla nella disperazione più acuta che la travolge, annullandola. Era come se quella fanghiglia volesse portarmi al vertice della disperazione, quando ogni speranza cade miseramente, sconfitta dalla vertigine di una realtà che ti sconquassa fino al midollo.
Stavo per cedere al mio destino inevitabile, quando quella massa putrefacente e viva s’impossessò delle mie ginocchia e poi del bacino, fino a comprimermi l’intestino e via via su fino allo stomaco.
“E’ finita”, pensai, “non resterà traccia di me” e non riuscivo a pensare a nessuno a cui sarei mancato: quella terribile esperienza che stavo vivendo mi stava cancellando non solo il corpo ma anche la mente e, soprattutto, il cuore. Desideravo vivere ma mi era impedito. Ma vivere per chi? La mia memoria era come azzerata da quel sentirmi sopraffatto e senza via di fuga, mi sentivo solo, abbandonato.
Ero ormai immobilizzato e, quando il fango mi raggiunse il petto, sentii il cuore battermi dentro al costato compresso, come se si fosse creata una cassa armonica intorno ad esso per farmelo percepire più forte, reale, pulsante, pieno di desiderio, subito prima che cessasse di battere.
Bum bum, bum bum, bum bum. Non capivo nemmeno più se fosse un suono dentro la testa o una vibrazione che scuoteva il mio corpo dall’interno per dirmi che ero ancora vivo, nonostante tutto.
Bum bum, bum bum, bum bum.
Ad un certo punto, distratto dal battito del mio cuore, non mi resi conto che quel pantano mi era arrivato fino al collo e mi stringeva come un animale viscido attorcigliato attorno alle mie ultime speranze. Era la fine, ne ero certo.
Fu allora che urlai con tutto lo spirito che mi era rimasto dentro, per la rabbia di un’impotenza senza limiti, per l’ingiustizia di un destino che mi annientava, per la perdita della memoria di chiunque mi avesse mai amato, per il nulla che mi stava inghiottendo.
Urlai come una partoriente nel momento più doloroso e insieme più gioioso della nascita del proprio figlio. Urlai tutto il mio dolore e insieme tutto il desiderio che avevo di restare vivo, di non lasciarmi andare. Eppure nessun suono della mia voce risuonava nelle mie orecchie, come se quell’urlo non fosse reale, come se quel suono venisse anch’esso inghiottito da quel limo maleodorante, denso e freddo.
"Non riesco nemmeno più ad urlare", pensai in un fugace momento di lucidità. "Non riesco nemmeno più a chiedere aiuto". Ma a chi, poi? Chi potrebbe mai venire in mio soccorso?
La melma alla fine mi arrivò alla bocca e, istintivamente, feci un ultimo profondo respiro, per allungare il più possibile quei momenti che avrebbero preceduta la mia fine definitiva.
Sentii il fango sulla bocca e sul naso finché non mi coprì anche gli occhi. Tutto divenne buio, l’oscurità che era dentro di me si trasformò in tenebra intorno. L’oscurità diventò il nulla dentro cui svanivo. Non avevo più paura.
“Papà, papà!”
Sentivo come una eco la flebile voce di un bimbo lontano che chiamava.
“Papà, papà!”
Quella vocina insisteva e sembrava avvicinarsi sempre di più.
“Papà, papà!”
La terza volta fu più forte, determinata, senza tregua.
Mi svegliai sul mio letto, madido di sudore e, aprendo gli occhi, vidi una bimba di fronte a me che mi guardava e mi sorrideva con i suoi occhioni grandi e pieni della curiosità dei bimbi che domandano infaticabili, certi di una risposta.
“Papà, giochi con me?”
Sentii il mio corpo più leggero quando mi alzai dal letto e mia figlia mi prese per mano conducendomi nella sua stanza. Feci tutto il percorso dalla mia camera alla sua guardando ogni cosa come se fosse la prima volta, donato di nuovo.
Giocammo tutta la mattina e quasi mi dimenticai del mio incubo. Restava però un senso di liberazione, come se qualcuno mi avesse tirato su con una forza impressionante dalla melma nell’ultimo secondo della mia esistenza, facendomi tornare la memoria in un istante. Per farmi ricordare che non sarei mai stato solo.