La Pasqua nascosta
Racconto di Mauro Bighin
Pasqua 2020
Quando suo figlio aprì la porta dell'auto, trasalì nel risentire l'aria fresca di primavera entrargli nei polmoni, rivivendo la battaglia fra il sollievo e la sofferenza di quando ti appoggiano un fazzoletto bagnato e fresco sulle tempie febbricitanti.
Respirò profondamente prima di poggiare il piede destro sul marciapiede, per gustare quel momento fino in fondo, ma anche per prepararsi allo sforzo al quale non era più abituato.
Guardò suo figlio che gli sorrise teneramente con gli occhi.
"Eccoti qua, papà."
Rispose con un cenno del capo altrettanto leggero e si decise a scendere dall'auto. Suo figlio lo aiutò sollevandolo per il braccio finché non fu in piedi. Guardò in alto e vide il palazzo in cui viveva, risentendolo familiare come quando si torna da un lunghissimo viaggio lontano.
Suo figlio spinse il portone che dava direttamente sulla strada per lasciarlo entrare. Con i primi passi attraversò il cortile buio tipico delle case signorili e poi si diresse verso il vecchio ascensore dalle inferriate in stile liberty che tanto amava.

Salirono al terzo piano e, scendendo dall'ascensore, lo colpì persino la scacchiera bianca e nera delle piastrelle del pianerottolo. Da quando era uscito dall'ospedale, lo colpivano cose e dettagli che prima non notava o che dava per scontati.
Si fermarono davanti alla vecchia porta che non aveva mai voluto cambiare, con la doppia anta e la maniglia in ottone, con il legno lucido di vernice scintillante, ripassata più e più volte nei decenni a coprire le storture del legno antico e i buchi delle tarme.
Il figlio lo guardò di nuovo e con gli occhi gli fece un motto di richiesta di assenso. Rispose con un altrettanto flebile movimento degli occhi come per dire "sono pronto, suono io."
Alzò lentamente il braccio che gli sembrò immensamente pesante e portò il dito sul campanello lucido, premendo il bottoncino nero a forma di liquirizia.
Il suono del campanello squarciò il silenzio perfetto che, fino a quel momento, era stato appena scalfito dal suo ansimare di vecchio, con quel fischio del respiro più rapido del solito a cui si era già abituato.

Tornò il silenzio, finché non si cominciò a sentire un fruscio di ciabatte partire da lontano oltre la porta, come una eco del motore di una barca che entra piano nel porto, crescendo lentamente. Il fruscio si fermò davanti alla porta. Dopo qualche istante si udì forte il rumore metallico del chiavistello e la porta si aprì piano, come a svelare una sorpresa.

Quando la rivide, lei era già in lacrime, quasi che quella porte fosse stata di cristallo, totalmente trasparente, come se i loro cuori si potessero vedere oltre ogni barriera, oltre ogni ostacolo.
Lui provò a dire "eccomi qua", ma quello che ne uscì fu un sussurro senza volume, appena percettibile e si ricordò che gli avevano detto che la voce avrebbe risentito forse per sempre per i traumi ricevuti.
Ma lei non aveva bisogno di parole per capire e rispose "Bentornato, amore mio", come se sapesse quello che lui aveva provato a dirle, inutilmente.
Come mille altre volte nella loro lunga vita, lui non seppe cosa fare e fu lei a fare un passo per abbracciarlo. Sentì il minuto e fragile corpo di lei abbarbicarsi al suo, e gli ricordò momenti in cui quel corpo, ancora pieno di giovinezza, lo spingeva ad una irrefrenabile passione. Ora lo sentiva piuttosto come un rifugio in cui nascondersi dalla paura, in cui abbandonarsi e lasciarsi cadere, sostenuto e amato.
"Bentornato", ripetè lei ma il suono della sua voce, ancora squillante nonostante l'età, arrivò appiattito e privo di sostanza, filtrato dalla mascherina verde che le copriva la bocca e il naso.
"Ci baceremo più in là, magari a Pasqua, vedrai", e la voce di lei non gli sarebbe più sembrata così bella come quel giorno.

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