L'irruzione
Racconto di Mauro Bighin
Pasqua 2022
L’ordine era di sparare a qualsiasi cosa si muovesse dentro l’edificio. Ci avevano avvertito che ognuna di quelle finestre, disintegrate per l’urto di una bomba caduta nelle vicinanze, poteva essere la tana di un cecchino, rimasto a vigilare per farci fuori senza farsi vedere. Del colore giallo dei muri esterni rimaneva solo un pallido riflesso, nascosto dalla fuliggine e dalla polvere scatenati dall’esplosione, quasi come un sudario di morte si fosse posato sulla bellezza di ogni cosa intorno. Salendo le scale dietro ai miei compagni, riuscivo a immaginare quel condominio quando ancora palpitava di vita, animato dalle urla dei bambini e delle madri che li imploravano di tornare a casa quando si faceva sera.

Ma il pensiero fuggiva in un attimo, perché mi trovavo lì insieme ai miei commilitoni per ripulire da cima a fondo quel luogo, eliminando anche l’ultima traccia di vita che fosse rimasta dentro a quello scheletro di cemento.
Lo sapevo bene, era una situazione pericolosa perché il nemico poteva celarsi dietro ogni porta, alla fine di ciascuna rampa di scale, in fondo a un corridoio, dietro a un divano o a un letto. Dovevamo uccidere chiunque si muovesse, perché non poteva che essere qualcuno di ostile; dovevano essere scappati tutti chissà dove, su chissà quali strade, verso chissà quale destino. Chi fosse rimasto lo aveva fatto per farci del male e io lo dovevo uccidere.

Nel silenzio irreale, ogni soldato della mia squadra era teso ad avvertire il minimo rumore, un fruscio, un ticchettio impercettibile, un respiro. Ogni suono rappresentava un allarme e poteva essere l’ultimo che avremmo sentito nella nostra vita.
Ci muovevamo seguendo la coreografia della guerriglia urbana, coprendoci le spalle l’un l’altro, scattando ad ogni ordine verso la prossima insidia. Così per ore, cominciando dal piano terra e salendo poi verso l’alto, dove il pericolo cresceva di piano in piano, in un’ascensione di terrore.

Dentro questo silenzio fu inevitabile avvertire quel mormorio distante. Scattò subito l’allerta e ci allineammo per proteggerci in caso di un attacco, pronti con le nostre armi a reagire, prima che fosse tutto perduto. Inizialmente sentimmo solo un sibilo leggero, come di consonanti aspre e nient’altro, ma non c'era dubbio che quella fosse una voce umana.
L’allarme cresceva e la paura s’impossessava di noi. Fino a quel momento non avevamo incontrato nessun problema ma, pur consapevoli che prima o poi sarebbe potuto accadere, quando sentimmo quella voce lontana ci guardammo l’un l’altro, leggendo nei nostri occhi il terrore.
Io ero al comando e non potevo certo mostrare esitazione, quindi diedi a gesti l’ordine di procedere verso quella voce, verso l’angoscia stessa che generava in noi. I miei ragazzi si mossero eseguendo il comando, quasi inebetiti dalla paura, facendosi forza per mantenere la calma senza rischiare di lasciarsi prendere dal panico.

Svoltammo a destra alla fine di un lungo corridoio e, appena girato l’angolo, quella voce divenne improvvisamente più chiara, anche se rimaneva ancora lontana. Il sibilo divenne lentamente un mormorio, che pur restava incomprensibile. Porta dopo porta, ci avvicinammo a quel suono, in una tensione che cresceva ad ogni passo.
Arrivammo davanti all’ingresso di un appartamento che, come tutti gli altri, aveva la porta divelta. La voce veniva da lì dentro, ormai era chiaro. Tuttavia non capivamo che cosa quella voce dicesse; l’avvertivamo come il lamento di una litania che sgorgava dalle viscere di quel luogo di morte. Sembrava davvero che fossimo arrivati alle soglie dell’inferno e che qualche dannato si stesse lamentando per la propria pena.

“C’è qualcuno lì dentro?”, urlai prima in russo e poi in ucraino.
Non vi fu nessuna risposta, mentre la litania continuava, più flebile ma costante.
“Chiunque sia lì dentro, esca con le mani sulla testa e nessuno si farà male!”, intimai ancora più deciso ma con la voce che tradiva la mia paura. La litania si interruppe per un attimo ma riprese subito con maggiore intensità.
Guardai i miei ragazzi e con le mani diedi l’ordine di procedere con cautela dentro all’appartamento. Il primo soldato si fece forza e mosse i primi passi, mentre gli altri lo coprivano. Sapeva che, se lì dentro davvero ci fosse stato il nemico, sarebbe stato colpito per primo, sacrificando probabilmente la propria vita per i suoi compagni.

Arrivati davanti alla stanza da cui proveniva quella voce ero pronto a dare ordine di fare irruzione, quando finalmente compresi cosa fossero quei suoni.
Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi”, sentivamo ripetere incessantemente, quasi come una eco senza fine che arrivava dal profondo.
Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi”.
Qualcuno stava pregando lì dentro, ma non potevamo certo rilassarci. Poteva trattarsi di una trappola mortale, per farci entrare con l’inganno e poi colpire.

Con i mitra spianati entrammo uno ad uno, ma non successe nulla. Restammo con le armi puntate pronti a sparare, finché non fu chiaro che avevamo davanti solo una vecchietta inginocchiata davanti ad un’icona del crocefisso, appoggiata sul pavimento. Pur avendoci certamente visti, la donna continuò a pregare e non si fermava.

Re Celeste, Consolatore, Spirito di Verità, che sei presente in ogni luogo ed ogni cosa riempi, tesoro di beni che doni la vita, vieni ed abita in noi e purificaci da ogni macchia e salva…”. L’anziana donna recitò queste parole e poi, improvvisamente, s'interruppe. Girò il viso rivolgendo proprio verso di me i suoi occhi azzurri come il cielo di primavera. Il volto era incorniciato da un fazzoletto decorato di fiori dello stesso colore dei suoi occhi. Mi guardò intensamente per qualche istante che mi sembrò eterno e poi, sulla bocca quasi inghiottita dalle grinze del tempo, le sua labbra disegnarono un sorriso lieto. Era uno di quei sorrisi di chi si trova in un luogo amato, abbracciato dalle persone più care, in pace.

“Buona Pasqua a voi!”, disse nella sua lingua, ripetendo subito dopo il medesimo augurio in russo. Il suo augurio risuonò in quel silenzio irreale come l'annuncio della nascita del figlio ad un padre in attesa. Sentii il calore del sorriso di quella donna attaccarsi alla mimetica e, attraversando la pelle, raggiungere il mio cuore.
Nemmeno sapevamo che quel giorno fosse Pasqua, perché da tempo per noi ogni giornata si ripeteva sempre uguale, implacabilmente senza speranza.

“Buona Pasqua a lei!” risposi quasi d’istinto, mentre i miei soldati mi guardavano stralunati e increduli di fronte a quella scena.
“Perché non è scappata?” le chiesi.
“Perché non ho nessuno da cui andare e tutto quello che avevo è qui”, rispose dolcemente la vecchia signora.
“Non può restare, è troppo pericoloso…”, le dissi con tenerezza.

Prese fra le braccia l’icona davanti alla quale stava inginocchiata, si alzò lentamente, pulì le ginocchia e l’icona dalla polvere che copriva come un sudario quella che una volta era stata la sua modesta casa e si girò verso di noi.
“Ora sono pronta, posso andare”, disse dolcemente, con l’icona stretta al petto come fosse un figlio.

“Portatela giù e consegnatela all’infermeria, troveranno un modo per metterla al riparo”, ordinai ai miei soldati.

La guardai mentre uno dei soldati la accompagnava, tenendola sotto braccio, con il capo chino su di lei come fosse sua madre. Prima di sparire per sempre si fermò e si girò ancora un'ultima volta verso di me.
“La pace sia con te!”, mi disse nella mia lingua. Poi si voltò e la vidi sparire, inghiottita dall'ombra oscura di quel corridoio.
This site was made on Tilda — a website builder that helps to create a website without any code
Create a website